Mariah Carey, il primo album usciva il 12 giugno 1990. Le curiosità e le canzoni sul lavoro che ha dato il via alla carriera delal cantante.
Mariah Carey, una ventenne di Long Island che soffriva di paura da palcoscenico, pubblicò silenziosamente il suo album di debutto nel giugno del 1990.
Con la Columbia Records alle spalle il presidente dell’etichetta, Tommy Mottola, fece notare che l’album di debutto della cantante era la priorità assoluta dell’etichetta nel mese della sua uscita: il mondo non avrebbe mai dimenticato la giovane cantante con la voce di cinque ottave.
Scopriamo insieme qualche curiosità su Mariah Carey, album di debutto dell’omonima cantante.
Mariah Carey, curiosità sull’album di debutto del 1990
Nell’album, ogni pezzo presente ha una propria particolarità. Partiamo da Vision of Love, che è una delle creazioni più forti nell’intera discografia di Mariah Carey.
Il video di Vision of Love:
Dopo un’apertura fantascientifica, la canzone si trasforma in una ballata pop/R&B lenta. Vision ha dato il via alla carriera della cantante nel miglior modo possibile.
Il brano è volato alla posizione n. 1 per un mese sugli Hot 100 e ha definito la debuttante come miglior cantante pop femminile ai Grammy.
There’s Got to Be A Way: la seconda traccia dell’album mantiene lo stesso stile di R&B/pop (e debolmente gospel) che caratterizza Vision, anche se l’argomento si sposta dall’amore all’attivismo sociale come afferma Carey, “ci deve essere un modo/per connettere questo mondo oggi“. La traccia denuncia la povertà e il razzismo, ed è oggi più attuale che mai.
Passiamo, poi, a I Don’t Wanna Cry: il pop degli anni Novanta aveva una composizione distintiva e ogni cantante – solista o gruppo, maschio o femmina – aveva almeno una ballata angosciante in agguato.
Mariah si unisce al club e canta il dolore di porre fine a una relazione: “Anche se ti ho dato il mio cuore e la mia anima, devo trovare un modo di lasciarti andare, perché piccolo, non voglio piangere“.
La Carey notoriamente non era una grande fan della canzone, ma ciò non ha impedito alla traccia di diventare il suo quarto numero 1 dell’album.
Someday invece, prima traccia up-tempo dell’album, dà nuova vita a Mariah Carey. La traccia dance-pop parla del karma che agisce favorevolmente per vendicarsi di qualcuno che l’ha scaricata.
Sebbene alcuni degli arrangiamenti ritmici – e un assolo di chitarra elettrica che illumina il bridge – impediscano alla traccia di sembrare senza tempo, Someday ha completato la tripletta della Carey dei singoli n. 1 consecutivi, all’inizio 1991.
Mariah Carey, album del 1990: Vanishing, All In Your Mind e Alone in Love
Passiamo a Vanishing, la canzone che fa leva su un piano e sul registro inferiore grintoso della cantante, fatto di note estese e penetranti.
Il video di Vanishing:
C’è, poi, All in Your Mind: la Carey rassicura un amante nervoso che non vuole lasciarlo e che è “tutto nella tua mente“, cantando con un ritmo morbido e pseudo-reggae.
La canzone funge da gradita pausa dalle serie di ballad che – fino a quel momento – hanno dominato le canzoni di Mariah Carey, stabilendo uno standard che seguirà la Carey per tutto il decennio: una vetrina vocale incastonata su una serie di cori loop.
E poi Alone in Love: il produttore Ben Marguiles (che ha contribuito a scrivere sette delle 11 tracce dell’album) fornisce un ritmo centrato sul tamburo, ma i testi non sono particolarmente eccezionali.
Come la maggior parte delle tracce della Carey, tuttavia, dipende dalla performance vocale del cantante.
Mariah Carey, You need me, Sent From Up Above, Prisoner, Love Takes Time
You Need Me: Inizialmente, la canzone sembra la cugina di Someday, poiché entrambe le canzoni up-tempo, seguono all’incirca la stessa melodia, anche se – quest’ultima – differisce per alcuni riff di chitarra e per la voce cristallina di Carey.
Il video di You Need Me:
Passiamo quindi a Sent From Up Above: anche se l’usignolo dell’R&B ha realizzato – in un primo momento – principalmente ballad, Sent From up Above incarna ciò che rende così dolce l’era pop/R&B degli anni ’90.
Caratterizzato da una serie di “hoo” e voci di backup nitide che accentuano tanto quanto aggiungono, questa traccia mostra l’estensione vocale dell’artista.
Continuiamo con Prisoner: molto prima del remix, Fantasy, con ODB e Butterfly, la Carey si dilettava con l’hip-hop con risultati contrastanti. La cantante guadagna il suo status di star femminile pop con il rito di passaggio che prevedeva l’inserimento della parlata rap.
E infine Love Takes Time: “Era una canzone che – in realtà – era abbastanza per fermare la pressione“, ha scritto il co-sceneggiatore Ben Margulies sulla ballata di chiusura dell’album, un pezzo che rimane nel cuore degli ascoltatori.
Mariah Carey era già stata completato per il mastering, quando è arrivato Loves Takes Time, ma la Columbia Records – ritenendo che la canzone fosse un vero successo – decise di inserirla, nonostante le obiezioni della Carey di tenere la traccia per il suo secondo album. Il singolo fu il suo secondo numero 1 nella Hot 100.